L’ipertrofismo oculare che prende corpo nella pittura vidoniana dei primi anni settanta, trasformandosi poi in uno stilema ricorrente per diversi anni, non è ascrivibile a un’influenza della pittrice statunitense, le cui raffigurazioni ipertrofiche, inizialmente firmate dal marito e poi al centro di rivalsa giudiziaria, raggiunsero ampia popolarità negli States già alla fine dei cinquanta e poi durante i sessanta. Nemmeno può essere attribuita a Vidoni una adesione a certe  espressività della Lowbrow Art (Mark Ryden e Ray Caesar in testa), che per altro divengono noti in Italia verso la fine dei novanta. I grandi occhi vidoniani hanno matrici differenti che affondano le loro radici innanzitutto nelle icone della pittura sacra greco-ortodossa molto amata dall’artista centese poi in transfert sinergico nelle figure prodotte da  artisti del novecento magari sospesi fra espressionismo e surrealismo come Moise Kisling (1991-1953) o protagonisti assoluti del surrealimo post bellico, prima di tutti Félix Labisse (1905-1982).

Non è dunque un caso che le prime tracce dell’ipertrofismo oculare delle figure vidoniane siano già rintracciatbili in un’opera giovanile di arte sacra del 1948, una grande crocifissione in cui un Cristo con gli occhi dilatati e spiritati per l’agonia del supplizio abbandona le consuetudini delle raffigurazioni tradizionali. Da quest’opera si dipana, idealmente e precocemente, la ricerca sull’arte sacra che permetterà a Vidoni, alla fine degli anni settanta, di approdare alla produzione di una serie di icone ispirate all’arte greco-ortodossa e poi, nella seconda metà degli anni ottanta, di definire il vasto e complicato universo figurativo-narrativo della miracolosa, quanto agiograficamente inesistente, Santa Bladina da Cento.

Anche le bambole, con i loro occhi volutamente sproporzionati e caricaturali sono un tema ricorrente nelle pitture (e nelle fotografie) vidoniane degli anni settanta. Spesso abbandonate in paesaggi metafisici o surreali, creano atmosfere “perturbanti”. Vidoni mescola abilmente le carte, il confine tra l’essere vivente e la bambola si fa labile, i ruoli si confondono, le bambole indossano armature da guerrieri mentre i bambini dipinti paiono bambolotti. Nell’ultimo periodo della sua vita, le inquietanti e ricorrenti “bambole vidoniane” assumono invece nuovi connotati, mutuati dal fumetto underground e dai cartoons, divenendo solari nei loro colori sgargianti (ma non sempre nei contenuti). Gli occhi delle figure sono ancora una volta enormi e spalancati, perché riscoprono la lezione del disegno umoristico e caricaturale. In parallelo, Vidoni inizia a sperimentare forme poetiche dove parole e immagini instaurano un dialogo reciproco, realizzando vere e proprie poesie disegnate in cui è possibile intuire la lezione verbo-visiva del disegno e della pittura narrativa di Dino Buzzati.